Il Co-Design è una progettazione partecipativa, in cui si coinvolgono gli stakeholder (utenti, designer, cittadini, fornitori, tecnici, ecc.) direttamente nella progettazione.
Lo scopo finale di questa co-progettazione è venire incontro a tutte le esigenze degli attori coinvolti, realizzando un servizio o un prodotto che rispetti le loro necessità, i loro bisogni e al tempo stesso sia usabile e profittevole per il business.
In questo articolo capire cos’è, da dove nasce, quali sono i suoi vantaggi e a cosa bisogna stare attenti.
Lo si chiama in tanti modi: Participatory Design, Co-operative Design, Co-Design. Ma cos’è effettivamente?
Il Co-Design è un approccio che cerca di coinvolgere tutti gli attori interessati nella ideazione, definizione e creazione di un progetto. È una metodologia innovativa che vede in prima linea, oltre alla squadra di Design, anche gli stakeholder, ovvero coloro che hanno qualche tipo di interesse nel progetto. Non solo gli utenti finali ma anche il Management aziendale, i tecnici informatici, il team del marketing, i cittadini, ecc.
Lo scopo del Co-Design è mettere insieme queste figure e farle collaborare allo stesso progetto fin da subito, stimolando la creazione di idee innovative che riescano a convogliare in un’unica soluzione i bisogni e le necessità di tutti.
Si discute, si propongono ipotesi, si stimola la collaborazione. Pensate al Co-Design come un gioco da tavolo cooperativo in cui si vince solo se si supera una sfida unendo le forze. Se non vi piace questo accostamento, potete pensare il Co-Design come una tavola rotonda della progettazione: siamo tutti sullo stesso piano, riuniti per un obiettivo comune.
Forse la parola giusta che può caratterizzare al meglio il Co-Design è “INSIEME”. I partecipanti al Co-Design condividono i loro punti di vista, le loro esperienze e le loro aspettative per arrivare al traguardo INSIEME, ovvero alla realizzazione di un prodotto digitale (il più delle volte) che crea valore per gli utilizzatori.
Se pensate che il Co-Design sia solo una moda, vi sbagliate di grosso. Possiamo far risalire, infatti, la nascita del Co-Design tra gli anni ’60 e ’70.
Ci troviamo in Scandinavia, dove i sindacati si battevano per il cosiddetto “collective resource approach” o “Design cooperativo”, per far sì che i lavoratori avessero un ruolo nello sviluppo dei sistemi IT in modo da migliorare la loro situazione lavorativa. Era un’iniziativa che in realtà aveva fini prettamente politici, si cercava di apportare dei cambiamenti legislativi per aumentare la sicurezza dei lavoratori nell’ambiente di lavoro, di dargli più potere e più responsabilità diretta sul proprio operato. E quindi l’iniziativa nata dalla collaborazione tra la Federazione Norvegese dei Sindacati (LO) e la Federazione Norvegese dei Datori di lavoro (NAF) ad aver dato vita a questo approccio che col tempo si è evoluto.
Quando l’approccio scandinavo iniziò a diffondersi negli Stati Uniti, la parola “cooperazione” venne sostituita dalla parola “partecipazione”. Si affermava così il Participatory Design, in cui la collaborazione diretta e faccia a faccia tra lavoratori e management non avveniva. Si collaborava indirettamente discutendo tra simili: i lavoratori con i lavoratori e il management con il management.
Fu solo negli anni ’80 che l’approccio iniziò a prendere effettivamente piede e lo fece grazie a una pubblicazione di Donald Norman (del Nielsen Norman Group). In “The Design of Everyday Things”, che in Italia è conosciuto come “La Caffettiera del Masochista. Il design degli oggetti quotidiani”, Norman iniziò a parlare di User-centered design catapultandogli approcci alla progettazione avanti anni luce: si inizia a progettare focalizzandosi sui bisogni delle persone.
Sono diversi i motivi per il quale un team di Design dovrebbe adottare questa tipo di approccio progettuale.
Il Co-Design è:
Pensate al Co-Design come una tavola rotonda della progettazione, facilitata: siamo tutti sullo stesso piano, riuniti lo stesso obiettivo.
Quale sia l’approccio che si vuole utilizzare, c’è sempre bisogno della giusta preparazione e di definire in anticipo quello che si deve fare, come lo si vuole fare e soprattutto perché.
Esistono quattro macrofasi che bisogna tenere a mente:
Le persone coinvolte nel Co-Design non possono autogestirsi, o almeno non completamente. Ed è qui che entra in gioco la figura importantissima del Facilitatore. Coordinare è necessario per distribuire e unire il lavoro delle persone, in un ambiente sereno e stimolante.
Chi facilita dovrebbe:
Tutte le attività possono essere svolte dividendo chi partecipa in sottogruppi. L’utilizzo di sottogruppi aiuta in parte la gestione delle attività e in parte la generazione delle opinioni. Gestire un’entità più piccola, quindi un gruppo di poche persone, permette di far partecipare tutti alla progettazione e di evitare il fenomeno dei free-rider, coloro che mettono solo il loro nome al progetto.
I sottogruppi dovranno essere composti da massimo 5 persone ed è preferibile che in ogni gruppo siano inseriti un programmatore e un designer; le altre 3 persone dovranno avere dei background differenti tra loro. Da evitare, inoltre, gruppi composti da persone che si conoscono.
Ci sono davvero molte attività che durante una sessione di co-progettazione si possono realizzare, ma generalmente possiamo definire ogni attività come un processo che si compone di tre fasi. Prima di affrontare brevemente le tre fasi, è necessario che il facilitatore faccia da collante tra i partecipanti. Bisogna rompere il ghiaccio, cercare di mettere tutti a proprio agio.
Non ci sono regole scritte, ma la buona pratica prevede di introdurre gradualmente i partecipanti facendoli presentare e parlare un po’ dei loro interessi. Condividere gli interessi con gli altri può essere un buon modo di connettere le persone.
Dicevamo che le attività del workshop si compongono di tre fasi:
Prima di continuare a parlare del Co-Design è d’obbligo fare una precisazione: il Co-Design non è un Focus Group. Nel paragrafo precedente abbiamo visto che co-progettare non prevede solo parlare, interagire con altre persone e via dicendo. Nel Co-Design si è parte integrante della progettazione.
Ci sono delle somiglianze ma anche differenze:
Tra le cose in comune c’è l’interattività: le persone dialogano tra loro, si interfacciano con opinioni differenti, vengono a compromessi, si fanno influenzare (in maniera positiva e negativa).
Più teste, più idee: questo è il mantra. Per evitare di essere influenzati durante i workshop e per dare la possibilità anche ai più timidi di esporre le loro opinioni, potete utilizzare strumenti come post-it, lavagne o piattaforme adeguate.
È fuori discussione. Il Co-Design cambia come ci si interfaccia alla progettazione di un servizio/prodotto, ma non determina l’assenza di strumenti fondamentali per la stessa progettazione. Tutti gli strumenti di ricerca, tra cui anche il Focus Group che abbiamo citato qui sopra, sono sempre utili per una buona riuscita del prodotto. E lo sono ancora di più tutti gli strumenti di test, come l’Usability Testing.
Perché testare un prodotto/servizio che è nato col favore di tutti gli stakeholder? Sembra quasi un paradosso, se ci pensate bene. Realizzo un servizio digitale con l’aiuto degli utenti, del management, ecc., quindi possiamo presumere che vada incontro alle necessità degli utenti e del business.
E quindi incalzerete: perché testare allora? Testare un servizio digitale può dare una mano a individuare punti deboli da dover migliorare oppure avere una conferma del buon lavoro svolto. Preferireste individuare i problemi prima o dopo la pubblicazione del servizio? Penso che la risposta possa essere comune, ovvero individuarli prima perché costa di meno e ci sono minori rischi di un insuccesso.
Testare qualcosa è sempre la scelta giusta.
Participatory Workshop (di Robert Chambers) – il libro è un utile strumento per coloro che andranno a occupare la figura del facilitatore. Per chiunque debba gestire uno o più workshop nel libro sono presenti esercizi, idee e consigli utili per la gestione, la creazione dei gruppi e l’analisi dei risultati.
Gamestorming (di Dave Gary, Sunni Brown e James Macanufo) – gli autori di questo libro hanno raccolto 80 giochi per aiutare la comunicazione di un team di lavoro, per abbattere le barriere, generare idee innovative, rendere le riunioni più produttive e identificare le cause principali di un problema.
Conclusioni
Il Co-Design ha come obiettivo sviluppare un sentimento di comproprietà, di corresponsabilità riguardo un progetto e lo fa grazie alla collaborazione che avviene tra tutti gli stakeholder coinvolti. Decidere di co-progettare significa dare voce a tutti e creare qualcosa di unico. Si uniscono le varie prospettive come nell’enigma dei 9 punti, in cui si deve pensare fuori dagli schemi per arrivare alla soluzione e unire ogni tratto.
Per riassumere, possiamo affermare che il Co-Design è: