16/02/2022

Dal fare spazio al far tempo

Carlo Frinolli

Carlo Frinolli in:   make time Wellbeing

Oramai ci siamo abituati. Lo chiamiamo Smart Working dai primi di marzo 2020, complice la nostra quotidiana compagna di vita: la pandemia.

Oramai ci siamo abituati. Lo chiamiamo Smart Working dai primi di marzo 2020, complice la nostra quotidiana compagna di vita: la pandemia.

Una parola che non avevo praticamente mai utilizzato prima nella mia vita ha contribuito a farmi usare – a sproposito e lo proverò a spiegare dopo – un’altra locuzione con frequenza quasi quotidiana: smart working.

Per molte persone una novità assoluta. Poter aprire un portatile o un tablet, aziendale o non, e poter seguire le lezioni, lavorare, sentire colleghi… Grandi e “nuove” opportunità.

Con sé hanno portato nuove preoccupazioni, nuovi problemi, nuove considerazioni.

No non è l’ennesimo post che incensa il progresso, né l’ennepiùunesimo che lo demonizza.

È colpa (anche) mia

È un mea colpa, ma ci arrivo fra un po’. Diciamo per ora che, se in questi mesi avete avuto la sensazione di essere sempre di rincorsa o metaforicamente senza fiato, è anche colpa mia.

Tante persone che ho sentito durante il primo lockdown e anche il secondo mi hanno raccontato di passare intere giornate in call con il loro team.

Uno stimabile professore, collega e amico designer, Stefano Bussolon, ha condotto anche una ricerca sul, volgarmente detto, smart working e più propriamente chiamato Working From Home.

Ebbene è interessante vedere come la maggior parte delle persone che hanno partecipato, abbia espresso una preferenza su un modello di lavoro ibrido, che preveda uno o due giorni a settimana in ufficio e il resto del tempo a casa. Con il lavoro da remoto.

(NDR: è chiaro che stiamo parlando solo di quelle persone che possono tecnicamente lavorare da remoto, quelle cioè la cui compresenza in un luogo non sia necessaria per prestare la propria opera. Una minoranza, certamente.)

Qui provo anche a parlarvi della mia esperienza personale, che qualcun altro ha poi definito Zoom Fatigue.

Questa si è divisa in tre distinguibili tronconi, piuttosto chiaramente.

1. L’innamoramento

Nelle prime settimane di lockdown è stato tutto un rincorrersi e proporre occasioni di eventi remoti. Dirette, concerti, webinar, eventi, conferenze.

È stato un susseguirsi. D’altra parte, almeno qui in Italia, non si poteva uscire… E le ADSL, o con un termine meno ageé i WiFi, hanno cominciato a fare veramente il fumo e la differenza.

C’è stata una rincorsa quasi forsennata a esaurire il catalogo di Netflix, seguire tutte le dirette streaming, farne in prima persona, parlarsi sui sistemi di videoconferenza e poi semplicemente su Zoom, secondo la vulgata.

Il lockdown è durato fino a maggio e anche noi non ci siamo sottratti, ci abbiamo fatto anche una COVIDesignJam. Bellissima esperienza, devo dire.

Ci ha permesso di mantenere rapporti, rafforzarne altri, ridurre distanze e più importante per molte persone, continuare a lavorare.

2. La routine

Dopo la sbornia iniziale, ci è oggettivamente venuta a noia questa quantità di cose disponibili online. Prevedibilmente abbiamo coltivato la voglia di ritornare a vedersi, uscire e quant’altro.

Tutto sommato, io stesso avevo derubricato questo disagio dello stare troppo tempo davanti a uno schermo grande a piacere, semplicemente alla sovraesposizione forzata.

D’altra parte avevamo già l’abitudine o il vizio di stare tanto tempo davanti a un computer, almeno in lavori come il mio. Questa condizione l’aveva esponenzialmente aumentata.

Non c’erano più le pause caffè, le riunioni in presenza, i workshop con le amate sticky notes (post-it per molte persone :) ). Al contempo però rimaneva quella piacevole sensazione per cui, no non dovevi farti 45 minuti di auto per andare in un ufficio e poter lavorare alle tue cose. Non avresti dovuto impazzire a cercare una sala riunione per incontrarti col tuo team.

Photo by Babak on Unsplash

Più volte mi sono sorpreso a decantare le lodi di questo a persone amiche o che collaborano con me. Tutto era one-click-away da una nuova chiamata, un compito, una email.

Su strumenti poi che erano anche abbastanza affidabili, tutti progettati e sviluppati in era pre-pandemica, quando questi erano solo un supporto e surrogato delle riunioni di persona.

Spesso, ad esempio, i colloqui di lavoro da remoto erano un primo step di scrematura con cui le aziende comprendevano grossomodo chi avessero davanti, per poi procedere a un più classico processo di HR, con incontri, prove tecniche etc. altrettanto spesso in presenza.

3. Il disagio e il rifiuto

Poi forse è diventato tutto troppo one-click-away.

Troppo facile raggiungerci, troppo semplice creare una nuova chiamata.

Già in pre-pandemia ero schiavo del calendario per organizzare le mie giornate. La frase “se non è nel calendario, allora non esiste” l’ho usata così spesso che è diventata un mantra.

Così come altrettanto spesso mi sono trovato ad abusare di Calendly, strumento che evita il ping-pong tra le disponibilità di tutte le persone.

Ora, il trio Calendly, Calendar e videoconferenze è così semplice da invocare che in alcuni casi è stato usato anche prima che lo proponessi come opzione.

Me l’ero cercata.

Il risultato è stato che ho avuto letteralmente giornate di lavoro che non erano che una lunga sequela di conference call, incastrate perfettamente al minuto.

Le uniche pause dalle call erano le chat con il team sullo strumento che ci ha fatto scoprire di poter lavorare da remoto senza difficoltà: Slack. (Strumento che sta diventando sempre più imbarazzante dopo l’acquisizione di Salesforce, ma insomma, questa è un’altra storia).

Al punto tale che un’altra risposta standard era “sono in call ma dimmi” quando, rifiutando una chiamata al cellulare, rispondevo su WhatsApp o simili alle persone che mi cercavano.

Certo, mi direte, un po’ è colpa tua, non l’hai saputo configurare bene.

Al contempo ho l’impressione che molte delle persone che leggeranno quest’articolo ci si riconosceranno.

Da un certo punto in poi mi è capitato di pensare che mi mancava il traffico per tornare a casa in macchina. Che avevo bisogno fisico di uscire da una stanza della riunione appena finita e dover far qualche metro (o qualche decina) per tornare in una postazione di lavoro.

Ma di cosa avevo bisogno davvero?

Al ché mi sono ricordato di quando, parecchi anni fa, andavo in bicicletta in ufficio.

La sensazione più bella di quel doppio tragitto, andata e ritorno, ce l’avevo al ritorno.

Quando smontavo dai pedali, la sensazione dello stress accumulato era svanita, l’avevo letteralmente lasciato sui pedali, a schivare auto e a tentare di restare vivo ancora una volta.

No, non è che sono un pippa ad andare in bici. Vivo a Roma e una decina di anni fa era un filo più pericoloso.

Lo spazio mentale più che la gestione efficiente del tempo

Lì ho realizzato cos’è che mi stesse mancando in questi strumenti efficientissimi nel riempire le nostre giornate, al punto da permetterci di fare tantissime call, di affrontare tanti compiti e di, apparentemente, lavorare di più.

Ho realizzato che in realtà, ma va?, stavamo lavorando peggio.

Questa, mi rendo conto, è un’epifania mediocre. Ma lasciatemi ancora un secondo di credito.

Sono molte le persone che condividono con me la consapevolezza che il multitasking è una truffa e che gli esseri umani non sono fatti per il multitasking.

Una macchina, forse, perché riesce a fare context-switching in maniera molto efficiente, e passa molto velocemente da un compito all’altro. Ma non gli esseri umani.

Le persone hanno bisogno di spazio mentale, tra una cosa e l’altra.

La Zoom Fatigue è un affaticamento cognitivo che ci auto infliggiamo dovuto alla bulimia delle troppe cose messe in fila, efficientemente.

Cosa ci sta succedendo?

All’inizio dell’articolo l’ho scritto. È anche colpa mia.

Come tutte le cose, anche questi strumenti sono progettati.

Ma ora ci arrivo, abbiate un pizzico di pazienza.

Come scrivevo poco sopra, l’affaticamento cognitivo ci fa rimpiangere la fila sul Raccordo (vi ricordate? Sono di Roma). La questua delle sale riunioni e il ritorno in postazione.

Perché? Perché ci dà lo spazio di farlo, questo context switching, ci permette di elaborare quello che abbiamo appena sentito o detto. Ci permette di riflettere e digerire le notizie o le considerazioni. Ci fa venire delle idee.

E invece, siccome siamo preda dell’efficienza, rincorriamo il mito quantitativo del numero di cose da smazzare per metro quadro.

Sembra un problema della singola persona, giusto?

No, ve l’ho detto è (anche) colpa mia.

Come designer perché con il mio lavoro e quello di altre persone molto più brave e insigni di me nel farlo, stiamo contribuendo a progettare strumenti per la collaborazione digitale, in modalità full remote o ibrida.

E, come dicevamo nel WUDRome di quest’anno, ovvero Design Our Online World, l’impatto che le nostre scelte progettuali hanno sulle vite delle persone, spesso è piuttosto sottovalutato.

Ma d’altra parte, usabilità è sempre efficienza – certo – ma anche efficacia e soddisfazione delle persone a portare a termine dei compiti in determinati contesti.

Inzipparci le giornate di call è un’elegantissima pratica di masochismo, ma va inquadrata in quest’ottica.

Perché sembra efficiente, a volte è efficace (per quanto si passano i primi 5 minuti di una call a capire dove si è e perché) e molto molto raramente soddisfacente.

D’altra parte alzate la mano se almeno una volta avete pensato: meglio lavorare due ore con concentrazione dopo aver riposato, che tirarla a lungo fino alle 23.

Il bambino e l’acqua sporca?

Come spesso accade, la tentazione è quella di buttare via e demonizzare gli strumenti che ci hanno permesso tanto in questo periodo. Ovviamente è del tutto avventato.

Ci sono due cose che possiamo ragionevolmente fare. Anzi tre.

La cosa numero 0 (in fondo sono un nerd e comincio a contare da 0), è cominciare a riflettere meglio, da designer, sull’impatto che una cosa piccolissima come permettere di mettere due call una di seguito all’altra, può avere sulla vita della persona coinvolta e delle altre.

La seconda cosa che dobbiamo considerare quindi è come possiamo cambiare i comportamenti standard di questi strumenti per essere più vicini alle esigenze delle persone.

Persone che non sono solo quelle che collaborano con te, ma sono un complesso insieme di cose, con la loro vita che ruota attorno.

In un mondo in cui working from home diventa per lo meno una delle soluzioni possibili, non ha troppo senso dividere la giornata in fasce orarie come siamo stati abituati, il famoso 9-18.

Perché in mezzo ci sarà da organizzare il pranzo, le esigenze della famiglia etc.

Qui casca la terza cosa.

Sempre troppo poco prendiamo in considerazione, ad esempio, la quantità di stress accumulato o la giornata lavorativa che stiamo per affrontare quando, magari siamo a dieta.

Posso permettermi, il mercoledì a pranzo quando vado in ufficio, di prepararmi quel particolare coacervo di calorie che chi segue la mia nutrizione raccomanda?

Una domanda illuminante che è emersa parlando con un conoscente nutrizionista, a proposito di routine personali.

Ma non voglio divagare, rimaniamo sul punto.

Come persone non siamo solo macchine da routine lavorativa. Dobbiamo incastrarci anche il resto… Ovvio no? Beh insomma.

Come teniamo in considerazione queste esigenze in un mondo in cui il lavoro è più ibrido e meno compresente?

In altre parole come posso passare da una gestione apparentemente efficiente del solo tempo lavorativo, senza tenere in considerazione il resto?

Qualche indizio

Tempo fa, dai fortunati autori di Sprint: How to Solve Big Problems and Test New Ideas in Just Five Days, Jake Knapp e John Zeratsky, ho scoperto il loro nuovo libro MAKE TIME. Il mio personal disclaimer: come mi succede sempre, non ho preso questo come La Risposta. Anche perché questa, come sapete, è 42.

È piuttosto una proposta modesta di riorganizzazione del proprio tempo in un’ottica più personale e meno legata al farsi dettare l’agenda.

Una specie appunto di Reclaim your Calendar o Reclaim your Agenda. O anche di più: Reclaim your Time.

Non ve lo spoilero, ma mostra un framework semplice e efficace (non ho detto efficiente, sarà un caso :P) per provare a trovare la propria strada.

Personalmente lo trovo interessante e anche per questo l’11 marzo prossimo abbiamo organizzato un workshop con Julie Harris, una trainer riconosciuta, dal duo degli autori per esplorare quale possano essere soluzioni per affrontare questo problema.

In questo podcast ne parlo con lei, in una rilassata e interessantissima chiacchierata (in Inglese).

 

Ma con uno sguardo più ampio, se volete, la questione è – almeno per me – tutta qui.

Cominciamo assieme a riflettere di più sugli impatti che gli strumenti di lavoro hanno sulla vita delle persone e viceversa? Ma soprattutto, (ri)cominciamo a pensare in maniera più sistemica alle nostre azioni/reazioni?

Assicurati il posto! Sono limitati

Il workshop con Julie Harris si terrà l’11 marzo 2022, dalle 10:00 alle 13:00 su Zoom + Miro.

Scritto da:

Carlo Frinolli

“Da CEO di nois3 ho l’onore di dirigere un team di persone fantastiche, con le quali abbiamo intrapreso un percorso finora pieno di soddisfazioni per noi e soprattutto per i nostri Clienti. Mi occupo di Experience Design, la disciplina principale di quest’agenzia pluridisciplinare, basata sui principi di Human Centered Design che promuove anche da organizzatrice del World Usability Day Rome e del World Information Architecture Day Rome”

Alcuni Case Study


Correlati a questo articolo

Ti piace come lavoriamo? Contattaci!

Passa a trovarci anche su Facebook, LinkedIn, Twitter e Instagram .
Condividi questo post su:
Please, rotate the screen
or view the website on other screen.