
Il WIAD ROME 2018 è stato per me il quarto in cui sono intervenuta come speaker (grazie all’invito di Carlo Frinolli, CEO di nois3 e organizzatore dell’evento, conosciuto e ritrovato in giro per l’Italia in occasioni del genere).
È così che funziona: ci si conosce, ci si annusa per capire se si hanno professionalità da incastrare e valorizzare e si cerca il modo di fare qualcosa di buono insieme. Anche per questo è importante organizzare e partecipare ad eventi come il WIAD.
Lo scorso 24 Febbraio ho scelto di parlare di design e sono partita dal principio, che per una persona appassionata di parole vuol dire etimologia.
La parola design arriva nell’italiano nei primi del Novecento e proviene dall’espressione inglese industrial design che si afferma in Inghilterra in seguito alla Rivoluzione Industriale. Il processo che la porta nella nostra lingua è curioso e assomiglia più al saldo di un vecchio debito che a un prestito. Design infatti deriva dall’italiano disegno. Il disegno come lo intendiamo noi, è infatti un’intenzione, uno scopo, un piano e dunque un progetto – oltre ad essere una rappresentazione grafica, fatta in genere a mano. Così da disegno, attraverso l’intermediazione del francese dessein che fornisce più che altro materiale per la pronuncia, nasce la parola design. Dai primi del Novecento la parola torna in Italia, mutata nella forma e nel suono: riferita dapprima a oggetti di stile come automobili, elettrodomestici e elementi di arredo, la ritroviamo ai giorni nostri nella moda, nella comunicazione e infine anche nella progettazione di servizi e interfacce.
Alla luce di questa ricostruzione possiamo intendere il design come progettazione di interazioni piacevoli e funzionali che tendono ad un obiettivo. Dietro ogni interazione ci sono l’intenzione, la pianificazione, la proiezione verso un risultato e le scelte materiali per raggiungerlo: elementi materiali, audio e video, colori, forme, posizioni, relazioni, parole, simboli, oggetti.
In base a come il design realizza le intenzioni che lo chiamano in causa possiamo distinguere tre tipi di design: quello buono, quello cattivo e quello oscuro.
Lo scenario è il seguente: da una parte c’è un’azienda che vuole vendere un servizio o offrire un prodotto, magari su uno o più canali; dall’altra parte ci sono persone che vogliono proprio quel prodotto, lo cercano, sono disposti a pagare per averlo, vogliono solo capire come fare a goderselo.
Il buon design è in grado di assecondare la coincidenza di interessi tra chi offre un servizio, vende un prodotto e chi lo vuole utilizzare o comprare.
Per realizzare questa coincidenza virtuosa il buon design deve:
Il buon design si basa su dati, ricerche, studi, osservazioni.
Dietro agli utenti ci sono le persone. Che, come tali, hanno delle caratteristiche cognitive, dei limiti psicofisici (come la memoria ad esempio) che vanno tenuti ben presenti.
Se ad esempio voglio occuparmi di progettazione di messaggi, segnaletica e parole, devo conoscere il codice linguistico che voglio utilizzare (ma anche una po’ di linguistica, sociolinguistica, psicolinguistica…)
Un buon design crea interazioni chiare e comprensibili, utili e usabili.
E non aggiunge niente di inutile al mondo. Ma questa è una storia lunga che vi racconterò un’altra volta.
Il cattivo design ha errori di progettazione o di realizzazione che impediscono all’utente di raggiungere comodamente i suoi obiettivi.
Non conosce gli utenti, non fa scelte che derivano da dati o ricerche, non previene l’errore, anzi spesso lo crea. Per questo non è in grado di compiere la famosa conciliazione degli interessi.
Le vittime del cattivo design sono due: l’utente e l’azienda proprietaria del servizio o prodotto. Nessuno dei due raggiunge i propri scopi, nessuno dei due è contento.
Fornisce insomma informazioni incomplete e poco credibili e, spesso, causa grandi disagi.
Il design oscuro non è figlio dell’errore come il cattivo, ma dell’intenzione come il buono. A differenza del buono però non favorisce l’incontro tra azienda proprietaria del business e i suoi utenti, ma fa intenzionalmente gli interessi della prima, a scapito dei secondi.
Nei dark pattern i principi e le regole condivise per creare interfacce usabili sono eluse o sovvertite, a scapito degli utenti e a beneficio dei proprietari del business.
Sappiamo per esempio che le persone leggono rapidamente e distrattamente i testi, soprattutto quando si tratta di istruzioni. Chi si avvale di dark pattern asseconda quest’atteggiamento distratto, nascondendo le informazioni all’interno dei paragrafi di testo, rendendone poco esplicito il contenuto, usando costruzioni sintattiche studiate per far sì che gli utenti procedano senza prestare la dovuta attenzione a ciò che leggono.
Gli utenti odiano le istruzioni e cercano trampolini linguistici per poterle saltare. Chi glieli fornisce, nel bene o nel male, ha forti probabilità di ottenere i risultati che desidera.
Vediamo un esempio pratico.
All’utente viene detto che questi i suoi dati saranno usati per notificare informazioni importanti sul volo. Il testo dice: Importante. L’email / numero di telefono forniti di seguito, potranno essere usati per darti informazioni urgenti e per rispondere alla corrispondenza. In questo modo l’utente viene rassicurato e spinto a procedere senza leggere il resto del testo.
Ryanair preferisce che l’utente non legga tutto il testo, perché se non lo leggerà di certo non spunterà la casella, azione che serve per rifiutare la ricezione di materiale pubblicitario. Già questo è un piccolo ribaltamento della consuetudine (in genere la spunta si mette per accettare e non per rifiutare).Dopo che ha fornito la sua email, l’utente viene posto di fronte alla scelta se spuntare o no la checkbox. Il testo a questo punto ha il compito di confondere quelli che superano il primo inganno e si fermano a leggere. Esso si compone di tre frasi:
1. La prime 15 parole della frase iniziale sembrano ribadire quanto è stato già stato detto sopra: le informazione fornite saranno usate esclusivamente per la tua prenotazione. Ryanair ci riprova sperando che l’utente a questo punto si senta rassicurato e smetta di leggere prima di arrivare all’informazione veramente importante.
2. La breve frase centrale, che si nota meno, contiene l’informazione essenziale: Gli iscritti riceveranno informazioni da Ryanair e dai nostri partners. Questa è la frase che Ryanair preferirebbe che le persone non leggessero.
3. L’ultima frase, Se non desideri ricevere le nostre migliori offerte per favore spunta la casella, si capisce solo alla luce della seconda, perché se letta da sola parla solo di offerte e il suo senso è difficile da cogliere a una lettura a colpo d’occhio: da una parte la negazione complica la lettura, dall’altra la prospettiva di perdere le offerte può spingere a non spuntare la casella.
Chi ha scritto questo testo sa che le persone, dopo aver letto le prime parole di un avviso, di un messaggio, di un’istruzione, se hanno la sensazione di aver colto il senso saltano dritti alle conclusioni, evitando di soffermarsi su ogni dettaglio. Se si vogliono far passare delle informazioni in incognito, bisogna incoraggiare questo meccanismo, collocandole in una posizione poco appetibile, magari tra gli incisi, e usare parole che spingano le persone a credere che la parte saliente della comunicazione sia altrove.
Si tratta di un testo breve costruito per una lettura fulminea, pensato per chi butta un’occhiata alle tre parole iniziali e a quelle finali, dove ci si aspetta le informazioni importanti. Tutto sapientemente costruito per far credere una cosa – mentre le parole usate ne dicono un’altra.
Il trabocchetto poggia su una violazione della coerenza. All’interno della stessa interazione, infatti, l’utente deve esprimere il rifiuto in due modi diversi: nel primo caso spuntando la casella e nel secondo lasciandola vuota. La struttura delle opzioni si affida all’eventualità che le persone, leggendo frettolosamente, accettino di ricevere materiale informativo senza volerlo, almeno in uno dei due casi. Ad alimentare la confusione sono le strutture quasi identiche, ma opposte, if you do not wish e if you wish, e il which have nothing to do with your order ben nascosto nel testo e dietro una virgola complice.
Un trucchetto tipico legato alla scelta di default è ben rappresentato nell’esempio che segue: si tratta di una schermata che appare durante l’aggiornamento di Java.
Le persone tendono ad accettare le opzioni di default perché si fidano della scelta suggerita dal produttore, soprattutto in ambiti in cui sanno di non essere esperti. È il caso delle applicazione che installiamo sui nostri computer, quando spesso accettiamo il profilo standard rispetto a quello personalizzato perché non abbiamo voglia di vagliare tutte le opzioni o non ci sentiamo abbastanza competenti per farlo. In questo caso la scelta del produttore acquista prestigio e autorevolezza e viene reputata la migliore.
È ciò che avviene con gli abbonamenti ai servizi online, in cui il rinnovo automatico è sempre fissato come opzione predefinita (in genere dopo un periodo di prova gratuito), e l’idea della disdetta, con gli strumenti per realizzarla, sono tenuti lontano dall’attenzione e dalla memoria degli utenti. E così, mentre l’abbonamento si rinnova silenziosamente – niente email, niente sms, nessun promemoria – molte persone pagano senza accorgersi, per servizi che nemmeno sfruttano.
Fare un uso ingannevole di certe tecniche è una scelta che ignora l’etica e l’eleganza a favore del raggiungimento di obiettivi a breve termine.
Chi coccola i propri utenti fa un servizio che va oltre il proprio vantaggio e che si diffonde a favore di tutte le aziende che operano nello stesso settore, perché aumenta la fiducia generale. Quand’è che l’e-commerce ha iniziato a prendere piede? Quando i sistemi di pagamento sono diventati più sicuri e le interfacce più comprensibili e affidabili. Chi per primo ha lavorato in questa direzione si è trascinato dietro tutto il mercato. L’immagine di chi lavora bene e onestamente s’irradia su tutto il settore in cui opera, e questo rende gli utenti fiduciosi e ben disposti. Cos’altro può desiderare il mercato? Chi li inganna, invece, li fa tornare nel guscio. Proprio come le lumache quando si spaventano: ricordate quando eravamo bambini? Ci vuole tempo prima che si decidano a venir fuori di nuovo.
In un’epoca in cui la truffa è molto diffusa e anche troppo tollerata, chi riesce a far fare capolino agli utenti-lumachine è dalla parte giusta del business (e dalla parte giusta del mondo).
È difficile riuscire ad apprezzare consapevolmente le cose che funzionano, ma le interfacce oneste, i comandi comprensibili e le checkbox sensate esistono – e fortunatamente le incontriamo spesso senza farci caso. Se usando un servizio ne restiamo soddisfatti e non riscontriamo problemi, se raggiungiamo i nostri obiettivi e il nostro portafogli è salvo, vuol dire che dall’altra parte un progettista ha lavorato sodo per noi, impiegando le sue conoscenze non solo per guadagnarsi la pagnotta, ma anche per renderci la vita un po’ migliore.
Lo sketch di copertina è di Marco Buonvino